LABORATORILIBERI

 

IL SEGNO INCISO

L'incisione è tecnica atta a lasciare una traccia, sia essa superficiale o profonda, questa definizione che a tutta prima esempla un senso di ovvietà, è tuttavia significativa per definire una tecnica che è al tempo forma ed una materia che è al tempo coagulo teorico/simbolico.

Le stesse definizioni delle varie prassi incisorie denotano come la designazione fattuale, possieda un retrogusto linguistico che si origina in un remoto intrecciarsi di simboli, ambiti culturali e perché no, allusioni ermetiche.

Pensiamo al fatto che la stessa etimologia di tecnica è riferibile, partendo dal greco, all'idea di arte, e la radice sanscrita riferibile a questa definizione, indica il fare, la procedura, questa digressione non è certo puntigliosa erudizione, ma tentativo di ampliare un aspetto vasto dell'idea incisoria, spesso relegata in un ambito di pura prassi tecnico-esecutiva.

L'esecuzione, il processo di realizzazione di una stampa, presume una serie di passaggi che vanno comunque effettuati, quindi suppone una sorta di movimento operativo, un transito finalizzante, compiuto dall'artista che sceglie la materia, la predispone all'uso e successivamente interviene adeguatamente su di essa.

Occorre un soggetto dotato della necessaria competenza, una sorta di maestro di cerimonia che conduca la prassi mediante una serie di passaggi sapienti e attraversando stati esecutivi che conducano al risultato finale.

Sto galleggiando su metonimie, ma non essendo incisore voglio permettermi di leggere questa pratica con una attitudine vorrei dire, ereticale.

Sono proprio alcune definizioni metonimiche che vorrei approfondire, cercando nessi forse arbitrari, ma di sostanziale contiguità.

Esiste tra le altre tecniche una modalità chiamata maniera nera, cito espressamente una definizione Esecutiva: "l'incisore lavora in negativo partendo da un fondo scuro, per arrivare a delle zone bianche".

Non riesco a non pensare ad una acclarata, peraltro squisitamente linguistica, assonanza con la procedura alchimistica; anche in questo caso l'operatore parte dal nero della nigredo per arrivare al bianco dell'albedo attraverso fasi di purificazione della materia trattata.

È individuabile nella pratica dell'incisione, come in quella alchimistica, un sotteso processo di morte/rinascita; la lastra è incisa, ferita, violata nella sua purezza materiale da punte, acidi che "mangiano" la superficie, in una sorta di cammino sacrificale ed iniziatico della materia per giungere alla fulgidezza definitiva ed assertiva del segno.

Così anche il procedimento alchimistico, parla di morte, putrefactio, violenza iniziale per arrivare alla purificazione esaltante ed esaltata del definitivo risultato finale.

L'alchimia è una scienza immaginaria e per l'immaginario, l'incisione è anch'essa una tecnica ed una prassi dell'immaginario, se si intende con questa definizione, ciò che produce una immagine, quella di un foglio recante su di sé tracce, segni, ferite, della procedura appena conclusa.

Questa collusione esemplare tra le due prassi può forse apparire arbitraria, ma ecco che un artista come Rembrandt esemplifica e rinsalda l'apparente cesura.

In una acquaforte del 1652 egli rappresenta il dottor Faust nel suo studio con vari riferimenti ermetici e filosofali; mentre tutta l'immagine è tenuta su di un nero deciso e avvolgente, lo studioso è visibilmente attratto da punti di luce dove si rivelano allusioni cabalistiche e figure geometriche che ricordano l'iconografia tradizionale della pietra filosofale.

C'è anche un altro aspetto sottile della contaminazione sin qui perseguita, l'incisore, come l'alchimista è solo; solo a lui è data la facoltà di eseguire i vari passaggi di lavorazione della lastra, come l'alchimista nelle fasi esecutive dell'Opus, per arrivare all'opera finale che è ciò che l'artista ha deciso e scelto.

Entrambi trasformano la materia, entrambi interrogano la memoria archetipale, entrambi hanno nel segno della solitudine creativa un rapporto con la prassi tecnica della trasmutazione della materia.

In termini alchemici la fase iniziale corrisponde alla nigredo, una fase caratterizzata dalla materia in sé, la sostanza che deve essere purificata dalla prassi, per subire la trasmutazione ciò avviene sotto l'egida del metallo, piombo per l'alchimista, la lastra per l'incisore, egli quindi assume la fredda sostanza del metallo per assicurarne la trasformazione in calda materia segnica.

Le stesse opere presenti in mostra, sviluppano una idea estensiva della prassi incisoria utilizzando ed enfatizzando tutti i passaggi esecutivi, squadernando le metodologie estetiche come assunti di un discorso dichiaratamente grafico.

Il parallelo, peraltro metaforico, sin qui adottato con l'universo alchemico, trova una ulteriore

precisazione nelle tipologie espressive adottate.

Si va dalla nigredo, evocata da una insistenza segnica fortemente connotata da uno spazio atro, appena solcato da linee graffiate, all'albedo del foglio bianco, dove la valenza incisoria è esaltata dall'impronta a secco, purificazione albicante del segno.

In alcuni casi il dato espressivo dominante è costituito dalla cifra segnica, condotta sulla dissonanza tra spessori grafici e variazioni modulari delle tracce, tra neri assoluti e gamme distribuite di grigi.

Altre prove incisorie traggono vitalità dalla contaminazione tra segno e immagine, in un inverare l'uno rispetto all'altra, giocando tra le due differenti modalità percettive.

Appaiono in alcuni casi tipologie segniche reiterate, in una sorta di sviluppo seriale, disgiunte dal procedere per accumulazione, da una garbata gradazione del segno e dalla modulazione dei neri, grigi e bianchi.

L'aspetto iconico pare suffragare anch'esso le ipotesi sin qui suggerite, le variazioni visive e rappresentative, attraversano una estesa gamma iconografica: da una figurazione classica sino ad una contaminazione tra foto e segno, per attraversare una sorta di simbiosi tra segno e scrittura.

La stampa a secco presuppone l'evocazione di una forma che non si dà attraverso la sua descrizione, ma per mezzo della modulazione del supporto cartaceo impresso, evidenziato dalle corrugazioni della lastra.

Diverso è il caso in cui l'impronta, la traccia, il segno figurale, appaiono assorbiti e delimitati dalla scrittura, provocando una alterazione visiva assai significativa, poiché il significato dello scritto slitta al di fuori del contesto visivo, mentre il significante si dà come segno grafico ed espressivo.

Non mancano peraltro esempi di tradizionale abilità esecutiva, attraverso una descrittività immaginale che ripropone attitudini visive quali la figura o il paesaggio, risolte attraverso una procedura rappresentativa che sfiora la mimesi fotografica.

In altri casi l'immagine viene frantumata negli aspetti che comunemente la contraddistinguono, ecco quindi che accanto a lacerti di tipo fotografico, appaiono elementi scritturali a mo' di logo, mentre una insistita grafia si appropria di un segno serpentinante ed incisivo che enfatizza ed al tempo discrimina il tessuto figurale sottostante .

Va segnalata anche una tipologia quasi tipografica che si affaccia in alcune opere, adottando il principio dell'accumulo e della sovrapposizione in una reiterata affermazione e negazione della compattezza dell'immagine, in favore di una poetica del frammento.

Ecco quindi l'incisone come appare nelle opere di questa mostra, una idea della prassi esecutiva e una prassi dell'idea creativa.

Maurizio Cesarini  – da “libertà di stampa” a cura dell'Associazione Regresso Arti, Casamuseo Quadreria Cesarini Fossombrone (PU) - 2005


Masako, Fraternali, Keshiro, Lucarini - LABORATORILIBERI 1999

 

FABIO BERTONI

Wir besuchen ihn des ofteren in seinem Studio.
Dann sitzen wir beieinander, sprechen liber die Faszination dieser Kunst, seine und meine Arbeit an der Akademie, an der er das Kupferstechen lehrt. Leidenschaftlich erzahit er von der Schonheit, der kiinstlerischen Kraft der Radierungen, erinnert an Goyas wunderbare radierte Zyklen der, Desastres de la Guerra", der "Capricho" oder der ,Tauromaquia". Oft blattern wir in Kunstbuchem, begutachten die alien Stiche, das Gewirr der Linien, Striche, Zeichen, Schraffuren, die Spannung zwischen Halbtonen und schwarz-weiß Kontrasten, das Spiel von Licht und Schatten. In kleinsten Dimensionen tun sich ganz neue Bildraume aufifie glanzenden Flatten haben viele beruhmte Maler herausgefordert. Irgendwann legten sie Leinwand, Pinsel, oder Zeichenstift beiseite, nahmen Kupferplatte und Grabstichel zur Hand und ,"traktierten" das blanke Metall. Sie ritzten, kratzten und atzten ihre Bilder in seine glatt-polierte Oberflache hinein. So beherrschte Albrecht Durer das Stechen in Kupfer bis in die feinsten bildnerischen Darstellungen und technischen Ausfuhrungen. Auch Rembrandt kannte das Atzen gezeichneter Linien und Goya die Anwendung der Aquatinta. Picassos sinnliche Frauenkorper erreichten in den Radierungen eine wunderbare Leichtigkeit. Und Kathe Kollwitz und Otto Dix radierten die ganze Tragik menschlicher Existenz in Serien von Blattern und Zyklen, die emste Lebensthemen wie Krieg und Tod, Leid und Not behandelten.
Tieute kennt das Arbeiten mit Saure und Metall nur noch wenige Liebhaber, gibt es nur noch wenige, die sich fiir diese eher subtile, poetische Bildsprache interessieren. Zwar wird das lehrt, doch meist regieren traditionelle Lehrmethoden, erhalt die Technik Vorrang vor der kreativen Umsetzung. Doch die Technik ist nichts weiter als ein Mittel. Die Platten zu radieren, die Saure abzuwaschen, die Aquatinta draufzutun, die Farben zu mischen und zu drucken, das ist erne kiinstlerische Erfahrung, die weit über denrein handwerklichen Aspekt hinausfiihrt. Erst liber das Experiment findet der Kiinstler zu neuen Ausdrucksformen.
Der Maler Fabio Bertoni liebt die freie Erfindung, setzt unkonventionelle Werkzeuge ein. Sein eigentliches Interesse richtet sich auf die Darstellung im Werk, auf die Entwicklung einer expressiv-poetischen Bildsprache.
Wir steigen die schmale Stiege empor, die ins Atelier im Dachgeschoß hinauffuhrt. Bertoni zieht sich am liebsten dorthin zuriick. Das kleine Studio steht voller Bilder.
Der Geruch von Sauren, von Farben liegt in der Luft. Die Welt bleibt ausgeschlossen, wenn er zu Sticheln. Schabern, Bürsten und allerlei anderen Werkzeugen greift, urn seine Phantasien, seine Traume aufs Metall zu bringen. Bertoni ist ein Maler, der die Radiertechniken in all ihren Feinheiten beherrscht. Oft arbeitet er bis spat in die Nacht. Nur Kater Matisse leistet ihm dann Gesellschaft. Fur das Radieren braucht er Zeit, die richtige Stimmung.
Manchmal helfen ein Glas Wein, eine gute Musik - oder der Fernseher, der fast immer eingeschaltet ist.
Awischen seinen Staffeleien und den langen Arbeitstischen sammein sich wahllos schon bearbeitete Kupfer- und Zinkplatten sowie Bilder der letzten Ausstellung. Uberall stehen Farbtopfe, liegen Spachtel und olige, farbdurchtrankte Lappen herum. Wenn man radiert, wird man der reinsteAlchimist, man experimentiert, variiert... Kaltnadel, Aquatinta, Aquaforte.
Bertoni nimmt eine Platte zur Hand, die tiber und uber mit kraftvollen Linien und Zeichen bedeckt ist. Er kerbt sie immer defer hinein, bald zartUch, bald energisch. Dann legt er die Platte in das Giftbad. Wir atmen den beiBenden Gestank ein. Nach vielen Stundcn, Stufe fur Stufe, kommt die Zeichnung nuancenreich hervor. Das Metall beginnt zu leben, eine Geschichte zu erzahlen. Nach mehreren Proben kommt der fertige Druck aus der Presse: ein Gewirr von Linien, ein Korper, eine Figur, nur angedeutet. Mit leichter Hand sigmert er das Blatt. Derweilen  rolltsich Kater Matisse schnurrend auf der Liege zusammen.
Es ist wieder einmal spat geworden.

 

FABIO BERTONI – Fermignano 1942-1994

Pittore-incisore, ha lavorato alla stamperia 2RCdi Roma ed è stato docente di tecniche dell’incisione  a Catania, Aquila e Urbino. La sua ricerca si situa sin degli anni ’60 sul versante sperimentale della calcografia. Ha condotto interessanti indagini sugli universi narrativi di Cervantes, Pirandello, Calvino;Tobino, attraverso la realizzazione di esemplari pervase di una forte tensione poetica. È stato ed è, ancora attraverso la testimonianza delle sue opere, un grande Maestro.

 

RENATO BRUSCAGLIA
"La silenziosa scrittura manuale"

La silenziosa scrittura manuale, o questa, colorita dal ticchettio meccanico, che vado distendendo con le esitazioni e le incertezze che non sono soltanto della inesperienza dattilografica, può convenientemente, mi chiedo, sostituirsi o integrare il sistema dei segni che moltiplico e aggrego con la punta di acciaio sul rame verniciato e che poi incavo con una soluzione acida che un tempo si diceva appunto acquaforte?
Ne dubito.
Così, più che per eludere una prova, per la certezza di uno stretto rapporto di parentela fra poesia e stampa originale d'arte - l'una e l'altra da "leggere" compitamente verso dopo verso come segno dopo segno - preferisco attingere alla memoria delle letture che hanno colmato i vuoti fra uno schizzo sul motivo e la ritessitura del medesimo taglio compositivo sulla lastra, fra un acquerello e la conversione grafica della sua luce colorata e, a volte, negli intervalli più lunghi fra una morsura e la successiva.
E per seguire la successione che ritrovo in memoria richiedo la mano a Charles Baudelaire che dice: "Non solo l'acquaforte sembra fatta per esaltare l'individualità dell'artista, ma sarebbe addirittura difficile al suo creatore non imprimere sulla lastra la propria personalità più nascosta. Si può anzi affermare che da quando si è scoperto questo genere di incisione, si sono date tante maniere di praticarlo quanti sono gli acquafortisti." (1862).
E l'autore del mai dimenticato "Dans un tumulte au silence pareil,/ Le vent se lève!... Il faut tenter de vivre!" che si accostò alla nostra adolescenza e giovinezza, Paul Valery che nella felice occasione di un incontro conviviale con gli incisori ebbe a testualmente dire: "Poi col pensiero avvicino le nostre due arti:
scopro, nell'incisione, come nella scrittura letteraria, una stessa intimità tra l'opera che si forma e l'artista che vi si applica. La tavola (la lastra), (oppure la pietra) è molto simile alla pagina su cui si lavora: l'una e l'altra ci fanno tremare; l'una e l'altra sono davanti a noi alla distanza della visione nitida; con uno stesso sguardo abbracciamo l'insieme e il particolare; la mente, V occhio e la mano concentrano la loro attenzione su quella piccola superficie dove giochiamo il nostro destino... Non è questo il colmo dell'intimità creatrice che conoscono egualmente l'incisore e lo scrittore, ciascuno legato alla sua tavola dove fa comparire tutto quello che sa e tutto quello che vale?
E sommessamente ma con certezza aggiunge: ..."che se l'arte partecipa dello spirito, quello spirito la cui durata è intessuta di atti senza materia, l'arte più vicina allo spirito è dunque quella che ci rende il massimo delle nostre intenzioni col minimo dei rnezzi sensibili. Non vi bastano pochi tratti, poche incisioni, perché un viso, una campagna non soltanto ci siano dati nelle loro sembianze, ma suggeriti al punto che il colore assente e la luce più ricca non manchino affatto?
E a uno scrittore che non ignori il suo mestiere non bastano poche parole, un solo verso, per risvegliare nell'animo tutte le qualità delle cose, e persino tutte le armoniche e le risonanze del ricordo di un momento particolare della vita?
Ecco cosa ci unisce, signori. Noi comunichiamo col bianco e il nero, da cui la natura non sa ricavare nulla. Non sa fare nulla con un po' di inchiostro. Ha bisogno di un materiale letteralmente infinito. Noi invece di pochissime cose, e, se possibile, di molto spirito.
Ecco perché amo l'incisore".
Senza retorica e indegnamente lo riconosco, ecco perché ho amato e fatto l'acquaforte per gran parte della mia vita.

Renato Bruscaglia

Immagine: "Stradello poderale", acquaforte di Renato Bruscaglia, 1994

 

 

 

 

 

 

Testi ed immagini tratte da: Carla Esposito - HAYTER E L'ATELIER 17
Electa editore - 1990

Stanley William Hayter e l'Atelier 17

"II mio approccio all'arte è fondamentalmente sperimentale. Ritengo che l'arte - pittura, incisione, scultura ecc. - siano dei mezzi per la ricerca o il perseguimento della conocenza piuttosto che un modo per produrre oggetti di piacere... Insieme a discipline come la fisica o la matematica, così come la musica o la poesia, l'arte è un tentativo di estendere e approfondire la nostra conoscenza della vita, il nostro rapporto con il mondo. Più ancora, è un modo di cercare gli strumenti per trasmettere e dividere questo tipo di esperienza con altri" (S.W. Hayter, 1969).
Stanley William Hayter (Londra 1901-88), pittore e incisore, occupa una posizione centrale nella storia artistica di questo secolo. Le iconografie audaci e complesse dei suoi dipinti, i suoi colori risonanti e fantastici hanno marcato profondamente l'immaginario di più di una generazione di artisti.
Considerato il padre dell'incisione moderna per averla radicalmente trasformata attraverso la sua opera personale, Hayter diede vita a un momento di aggregazione culturale di starordinaria fertilità. Intorno a lui, a partire dal 1927 e fino alla sua scomparsa, scultori, pittori e incisori di diverse tendenze si incontrarono in un clima di libertà ed eclettismo intellettuale creando un'eccezionale "officina" di sperimentazione grafica: l'Atelier 17. Nell'ambito della storia artistica del Novecento, del suo procedere per gruppi, movimenti, per "societates" di artisti, e per atelier in senso lato, l'Atelier 17 costituì un punto focale sorprendentemente vasto per rifrazione di immagini ed estensione temporale dei movimenti d'avanguardia più salienti in Francia e negli Stati Uniti. Consentendo una visione dettagliata, incompleta ma più palpitante, reale, del pensiero surrealista e, più tardi, della vicenda dell'Espressionismo astratto, l'Atelier 17 permette infatti di tracciare la microstoria di queste avanguardie artistiche, e nello stesso tempo di cogliere le relazioni intrinseche di queste al medium dell'incisione. La partecipazione comune di molti artisti all'uso degli stessi strumenti di lavoro mise infatti in circuito numerose storie artistiche e personali, ripercuotendosi, con incidenze talvolta rilevanti, sulle vicende ideologiche e artistiche della prima metà di questo secolo.
L'analisi dei procedimenti artistici e dei valori dell'Atelier 17 può essere colta attraverso una duplice chiave di lettura: quella delle sue intime connessioni con i principi informativi delle avanguardie e insieme quella dei frammenti di una cultura materiale, che coglie l'opera d'arte nel suo farsi. Dove in movimenti chiusi come il Surrealismo erano le ideologie a condizionare le pratiche, l'Atelier 17 era un laboratorio aperto, dove le pratiche creavano e diventavano ideologie. L'Atelier 17 segnò quindi la rivincita dei procedimenti materiali e materici della creazione rispetto a una cultura estetizzante astratta, della concezione formalista dell'arte rispetto a una visione di tipo idealistico. Negata ogni prevenzione estetica, ogni presupposto e progetto ideologico, Hayter insegnava che l'arte era tutta nel suo farsi, nella sua fenomenologia. Il primato del pragmatismo, la lettura attenta a registrare i dati dell'opera colta in sé, rimandava a procedure creative che non avevano altro riferimento se non i modi di questa "casa-madre".
L'insegnamento all'Atelier si svolgeva quindi attraverso vie irriducibili a parole o teorie. L'esempio del fare, solo, era da seguire: "Non credete a ciò che dico. Se proprio dovete, allora credete a quello che faccio" (S.W. Hayter, 1960). Contrariamente ai workshops tradizionali l'Atelier 17 non ebbe a che fare con un luogo (di sedi a New York e a Parigi l'Atelier ne cambiò molte), un sodalizio unitario e permanente di artisti, l'applicazione uniforme e invariata di tecniche consolidate. L'Atelier non fu neanche una scuola, a meno di considerarla tale nel senso storico della diramazione dei suoi principi, ora noti e praticati in almeno una dozzina di paesi.
All'Atelier 17 non vi erano regole o discipline da seguire se non quelle di un costante atteggiamento di ricerca, di una vera e propria curiosità scientifica volta alla scoperta di operazioni che facessero dell'incisione uno strumento di esplorazione artistica interiore. Per Hayter la lastra era teatro di azione, materializzazione di energia psichica, dove il processo creativo veniva colto, attraverso la scoperta che l'artista faceva di se stesso nel corso dell'opera, nel suo rapporto con l'inconscio. E i procedimenti di individuazione che Hayter indicava - peraltro vicini al pensiero junghiano - erano quelli della pratica surrealista dell'automatismo, singolarmente applicata all'incisione.
"Dei modi correnti per rendere visibile il contenuto del pensiero e dell'immaginazione inconscia, il disegno automatico - senza controllo della volontà - è uno dei più validi" (Hayter, 1970). L'accento posto sugli elementi irrazionali dell'arte e la necessità di essere guidati dal caso e da reazioni "spontanee", sul procedimento piuttosto che sul risultato, il sistema "asistematico" in cui i risultati artistici venivano inseriti, l'idea del cambiamento, l'uso dell'intuizione come strumento di controllo analitico, queste idee che impregnavano più di una avanguardia europea di inizio secolo, all'Atelier 17 avevano gioco libero. Il principio fondamentale dell'Atelier, rivoluzionario per dei tempi in cui l'incisione comportava sempre un'immagine da riprodurre e che doveva marcare profondamente il percorso storico e artistico di questo medium, era quello di avvicinarsi alla lastra senza un'immagine preliminare: "II punto che distingue il mio workshop da quasi tutte le altre istituzioni in cui si insegna o si fa incisione è la convinzione che la tecnica sia un'azione che provoca l'immaginazione, che la eccita... e non un'operazione intesa a produrre una superficie, una lastra da cui trarre delle stampe. In nessun caso, poi, è la riproduzione di un originale, un'immagine già formata nella mente o che già esiste realmente in un dipinto, un disegno o altro... E così che può apparire un'immagine completamente diversa, che può presumibilmente andare al di là di quanto si faccia con altre operazioni" (S.W. Hayter, 1976).
La creazione diretta sulla lastra difendeva l'autonomia artistica dell'incisione e ne affermava l'indipendenza rispetto alle altre esperienze oltre che la parità inventiva. La mancanza di modelli, l'abbandono della rappresentazione rendeva inoltre l'incisione particolarmente adatta ad accogliere le esigenze dell'arte astratta. All'Atelier 17 i modi e i mezzi dell'espressione plastica erano quelli della più assoluta libertà. Pur nella riverenza di Blake e Seghers, era la contestazione, l'invenzione che si imponeva.
Tutto era permesso a questi artisti, sostenuti dalla preoccupazione moderna della ricerca del contenuto del pensiero e dell'immaginazione inconscia sulla lastra attraverso il movimento automatico del bulino. Dopo gli esperimenti che Hayter spingeva a fare, i mezzi tradizionali non sembravano più bastare. Hayter insegnava che tutto ciò che serviva per questo processo di scoperta non solo era possibile ma legittimo; legittimo andare sempre oltre, fino ad arrivare, se necessario, alla distruzione della lastra. La stessa dinamica della sperimentazione, che teneva compatto il gruppo così profondamente diversificato dell'Atelier si attuava, ricalcando le procedure dei laboratori scientifici, con un processo osmotico per cui così come non esistevano tecniche inventate da questo o da quello, così non c'erano segreti.
La creatività all'Atelier 17 non veniva perseguita tuttavia attraverso linee comuni, ma attraverso un livello estremo di individualizzazioni. Si procedeva non per accumulazione ma per sottrazione; non attraverso sistemi, ma per spaesamenti, decontestualizzazioni. L'enfasi dell'Atelier sull'esperimento veniva temperata dalla ferma convinzione che la scoperta di nuove tecniche non fosse fine a se stessa, nè scindibile dalla comprensione dell'opera d'arte: "A parer nostro i sistemi non hanno importanza, solo ha merito la felice dimostrazione di un'idea; i mezzi sono validi solo fino al punto in cui permettono la trasmissione di aspetti della realtà latenti" (Hayter, 1954). Se all'Atelier lavorarono artisti molto noti, che Hayter aveva riconquistato all'incisione, accanto a loro operavano personaggi meno noti, spesso oscuri, che per la storia dell'Atelier contarono quanto e spesso molto più dei primi. "Abbiamo avuto in questo workshop molti artisti celebri. In effetti si trattava di alcuni dei migliori artisti del mondo. Riteniamo che collezionare etichette per mostrare quanto sia importante questo luogo sarebbe assolutamente infantile. A interessarmi è qualcuno che potrebbe esser lì in questo momento, qualcuno di cui finora nessuno ha mai sentito parlare e che sta facendo qualcosa che non si è mai vista prima. Questo mi interessa molto di più di quello che faceva Picasso quando veniva o di quello che faceva Mirò - peraltro molto interessante e inventivo - di quello che facevano e potrebbero ancora fare Max Ernst, o Tanguy... Questa faccenda di mettere insieme una lista di nomi non ha senso".
Hayter rimase alla testa dell'Atelier 17 fino alla fine. Alla sua morte, nel 1988, l'Atelier cambiò nome: in omaggio al maestro, che aveva trasportato il concetto del contrappunto, del contromovimento dalla musica all'arte e ne aveva informato la sua opera di pittore e di incisore, Hector Saunier e Juan Valladares ribattezzarono l'Atelier in Contrepoint. Saunier, "massier" e braccio destro di Hayter per quasi vent'anni, e Valladares, attuali codirettori, portarono avanti l'atelier con i principi di sempre e l'Atelier Contrepoint continua ad attrarre decine di artisti che da tutte le parti del mondo vengono ancora oggi a misurarsi con l'incisione sperimentale. Il presente studio sull'Atelier 17 si arresta tuttavia al 1962, quando l'esaurirsi delle avanguardie storiche, la mutata concezione dell'opera d'arte e la nuova attenzione del mercato per l'incisione si riflessero sul clima operativo dell'Atelier determinandone una diversa configurazione e una nuova vicenda artistica.

 

 

                                                                                   

Stanley William Hayter

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"… è difficile dire esattamente quale sia la nostra direzione, ma in effetti ciò è, in parte, quello che rende interessante la nostra musica."

(Phil Lesh, musicista)

 

laboratoriolibero

AMEDEO COSIMO GIORGINO

Senza titolo, 1995

Xilografia, cm 50x70

LIVIO CESCHIN

"Urbino", 1993

Calcografia, cm 26x48        

 

 

Laboratoriolibero

 

 


SONIA ROSOLEN – “il diavolo” 1999 acquaforte , puntasecca –cm 50 x35

 

In laboratorio

L’artista Masako Handa ai laboratoriliberi in Palazzo Viviani-URBINO,1994 - (Masako e Kejshiro Handa hanno trovato ospitalità nei laboratori “aperti” gestiti da Paolo Fraternali dal 1993 al 1999)

 

 

Un'opera d'opere; nutrita delle individualità fuse, dà vita ad un tessuto in cui i gesti, le campiture e le forme si esaltano e sostengono a vicenda.

(Maura Savini)

 

                                                                               …..  sto soprattutto cercando di stare fuori dai guai. Cerco di “lavorare” bene. “Lavorare” è un esperienza di crescita, e continuare a imparare mi dà soddisfazione. E poi il mio obbiettivo è di “lavorare” il più possibile…. È l’ingrediente chiave.

Paolo Fraternali

 

 

 

 

 

 

 

 

L’incisione d’arte richiede tutta la disciplina e le ferree regole di ogni altra espressione artistica: applicazione, ispirazione da buoni modelli, pazienza, noncuranza dei riconoscimenti sul lavoro, oltre naturalmente a una certa predisposizione naturale. È anche importante un ego ribelle contro cui lottare, in modo tale che la vita non sia priva di battaglie psichiche e di vizi – il preludio grezzo agli errori. Senza sbagli non si impara niente di meglio e se non si impara niente di meglio non è possibile servire da esempio agli altri; in quel caso, il potenziale talento non servirà a nulla con il risultato di presentarsi a mani vuote.

Le stampe originali d’arte dell’atelier”aperto”opera d’invenzione riflettono il senso della ricerca, dell’evoluzione continua (ma non priva di inciampi e contraddizioni), che è la conditio sine qua non in un processo di maturazione artistica.

Paolo Fraternali

 

 

Paolo Fraternali in laboratorio durante la morsura in acido nitrico diluito in H2O di una matrice in zinco “LABORATORILIBERI” Palazzo Viviani-Urbino 1996

 

 

LABORATORILIBERI

 

1) Paolo Gilardi pittore e incisore d’invenzione sta inchiostrando una lastra appena incisa (Urbino 1999)       ---              

                                                                                                  2) Paolo Fraternali in sala stampa ( Urbino 1993)

 

3) l’artista Livio Ceschin all’atelier – (Urbino 1993)

 

 

 

LABORATORILIBERI - PITTURA – Fano

 

Foto sopra: Paolo Fraternali e Stefano Mancini  in STUDIO

(Atelier “LABORATORILIBERI” –pittura- Fano 1998 )

“la bellezza è sempre funzionale

                                         HunderWasser

Forlì 2004 - professor Michael Ryan ( scrittore ), Paolo Fraternali (pittore e incisore) e Stefano Mancini (musicista e incisore) capo responsabile “LABORATORILIBERI” alla Corte della Miniera (PU) .-

 

La lastra è l'elemento prevalente del mio operare; la situazione: molto spesso pagine di un ipotetico diario quotidiano che viene utilizzato come elemento espressivo e visivo. La mia ricerca è un recupero, un'immagine rarefatta di natura, natura che si svela e che si identifica attraverso una traccia, un rilievo: sino a dare una dimensione fantastica delle cose. Il "bianco" della carta- lo spessore è "luce". Luce che non ha velature, luce che si espande, si infiltra sfiorando morbidamente i segni, riconoscibili e appartenenti alla natura. Frammenti di realtà, di memoria in un progressivo cercare me stesso nei segni, nella scrittura che è l'incisione, tramutarsi in una ricerca autonoma e personale.

Emidio Aloisi

Mimmo…..Emidio Aloisi 1961-2001 

Incisore, scultore, pittore è stato docente di anatomia artistica nelle Accademie di Urbino, Catania e Bologna, è stato uno dei fondatori dell’atelier “aperto” .  

 

 

Matrice calcografica in zinco di Emidio Aloisi realizzata nei “LABORATORILIBERI” in Urbino nel 1989

 

ESEMPI DI STAMPE ORIGINALI D’ARTE
REALIZZATE DA ARTISTI INCISORI NEI “LABORATORI LIBERI”  
www.cortedellaminiera.com

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Salvatore Scafiti
litografia 1993

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Liliana Corrias calcografia 1999

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Maria F. Duranti xilografia 1999

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Angela Trovato calcografia 1999

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Andrea Zingerle calcografia 1997

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Giangiacomo Susannone calcografia 1990

stampecorsi07.jpg
Stefano Mancini litografia 1993

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Carlotta Leoni calcografia 1994

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Stefano Mancini calcografia 1995

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Tania Mattei calcografia 1994

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Marcello Signorile calcografia 1996

stampecorsi12.jpg
Wil-ma Kammerer calcografia 1995


Kejshiro Handa
calcografia 1996


Kejshiro Handa
calcografia 1994


Kejshiro Handa
calcografia 1997

 

 

 

L’artista Emilio Furlani al lavoro nei laboratoriliberi in palazzo Viviani, Urbino nel 1995

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Che cos'è una stampa

Talvolta accade che sulla natura di alcune "cose" si posseggano idee abbastanza precise, senza però essere in grado di darne con altrettanta facilità una definizione.
Ad esempio, ciascuno di noi conosce che cosa siano la verità o la libertà, ma un conto è saperlo nella propria testa, un conto essere in grado di fornirne un'esaustiva definizione verbale, o almeno una descrizione.
Nel caso delle stampe - ovviamente delle stampe d'arte - il fenomeno talvolta si ripete.
Tanto che non è fuor di luogo che un manuale come questo apra il suo discorso definendo che cosa sia una stampa d'arte.

1. Definizione di "stampa d'arte"

Una prima risposta possibile è la seguente: una stampa d'arte è un manufatto dell'uomo creato per scopi estetici, ottenuto dall'inchiostrazione e dall'impressione a stampa di una matrice precedentemente incisa o comunque lavorata a questo scopo direttamente dall'artista.
Si tratta per ora di una definizione generica, che comprende qualunque tipo di stampa e per la quale sarà necessario apportare più dettagliate specificazioni e alcune fondamentali distinzioni.
Infatti la parola "stampa" o "stampa d'arte" fa riferimento a una produzione di opere talvolta molto diverse tra loro, sia per motivi cronologici, sia per gli scopi per cui sono state prodotte, sia ancora per i metodi esecutivi connessi alla loro produzione.

2. Distinzioni terminologiche

A livello cronologico la distinzione fondamentale e tradizionalmente accettata nel mondo della grafica d'arte è la sua suddivisione in due grandi periodi, quello dell'"incisione antica", che va dal Quattrocento alla Rivoluzione francese, e quello dell'incisione moderna", che parte all'incirca dalla fine del XVIII - inizio XIX secolo e giunge ai giorni nostri, ricordando che la produzione corrente prende il nome di "incisione contemporanea".
Nell'ambito dell'incisione antica è poi normalmente accettata una seconda suddivisione, attinente l'origine dei soggetti incisi. Infatti tra le stampe antiche sono da distinguere le cosiddette "stampe d'invenzione" dalle "stampe di riproduzione".
Le prime sono quelle ideate e incise da uno stesso artista, che ha appunto "inventato" il soggetto, traendolo quindi dalle sua fantasia e dalle sue capacità inventive.
Sono dette invece "stampe di riproduzione" quelle il cui soggetto deriva da una precedente composizione di un altro artista (un dipinto o un disegno).
Se, ad esempio, prendiamo in esame la stampa riprodotta nella figura 1, vediamo che si tratta di un'opera di Rembrandt: questa è una stampa d'invenzione, poiché l'artista ha personalmente ideato il soggetto, che poi ha inciso.
Al contrario ci troviamo di fronte a una stampa di riproduzione se consideriamo l'opera della figura 3, Davide con la testa di Golia, incisa da Robert van Auden Aerd. In questo caso l'incisore si è limitato a intagliare sulla lastra un soggetto che in precedenza era stato ideato da Carlo Maratti.
La stampa di riproduzione, nel linguaggio corrente, è talvolta detta d'après.
Questo termine, ripreso dal francese, significa "tratto da", per cui si dice, ad esempio, che la stampa di R. van Auden Aerd, sopra esaminata, è un d'après Maratti.
Una terza fondamentale distinzione è quella che precisa la natura della stampa rispetto alla sua autenticità, separando l'originale dalla copia e dal falso.

 


1. Rembrandt, I tre alberi, acquaforte. Il soggetto di questa notissima opera di Rembrandt è stato "inventato" dallo stesso Rembrandt. L'opera rientra tra le cosiddette "incisioni d'invenzione".


2. G.D. Tiepolo, Venezia riceve l'omaggio di Nettuno, acquaforte. Esempio di incisione di riproduzione, in cui viene dichiarato il nome dell'incisore (G.D. Tiepolo). e quello dell'inventore (suo padre, Giovanni Battista).

 

Vediamo meglio: l'originale è l'opera autentica, cioè quella la cui lastra è stata incisa dall'artista che ne viene dichiarato l'autore (fig. 4).
La copia, invece, è quell'incisione il cui soggetto è stato desunto, in parte o in toto, da un'altra incisione (figg. 5-6).
Se poi in questa copia sono state poste alcune scritte atte a far credere che l'incisore non sia stato il copista, bensì l'autore dell'opera servita da modello, allora la copia si trasforma in un falso (figg. 7-8).

 

SUDDIVISIONI GENERALI

La stampa d'arte può essere:

Da un punto di vista cronologico

• antica (dagli inizi alla fine del XVIII secolo)

• moderna

• contemporanea

Da un punto di vista iconografico

• di invenzione

• di riproduzione (d'après)

Da un punto di vista dell'autenticità

• autografa

• copia

• falso

Da un punto di vista tecnico

• un'incisione in rilievo

• un'incisione in cavo

• una litografia

• altro (serigrafia, cliché-verre, ecc.)

 


3. R. van Auden Aerd, Davide con la testa di Golia, acquaforte. Altro esempio di incisione di riproduzione con un soggetto derivato da C. Maratti.


4. C. Gellée detto Lorrain, Il bovaro, acquaforte, 1636. In questa stampa l'incisore, in basso a destra nel margine, si dichiara inventore ed esecutore dell'opera, aggiungendo dopo il suo nome "in. et f." ("invenit et fecit").

 

Facciamo un esempio: nella seconda metà del XVII secolo il marchigiano Carlo Maratti ha inciso un'Adorazione dei Magi, che nella tiratura definitiva porta un'iscrizione dove si attesta che il Maratti è stato l'inventore e anche l'incisore dell'opera. Di questa acquaforte esistono almeno undici copie, una delle quali è anche un falso, poiché porta l'iscrizione "C. Marat. f." {Carlo Maratti fecit}, che tende fraudolentemente ad assegnare la paternità dell'intaglio all'artista marchigiano.
Le ripartizioni fin qui esaminate valgono per le stampe antiche, mentre hanno poco peso per le stampe del XIX e XX secolo, quando il fenomeno dell'incisione di riproduzione si è praticamente spento, almeno nel senso tradizionale del termine, e altrettanto può dirsi del fenomeno delle copie. Per contro, nell'epoca moderna ha assunto un'importanza ragguardevole la distinzione tra stampe originali e non originali. Con questo attributo si fa riferimento al modo con cui sono stati ottenuti sulla lastra quei segni che poi, inchiostrati, daranno luogo alla stampa. Vengono riconosciute come "originali" quelle stampe ove il lavoro sulla lastra (l'incisione o il disegno litografico) sia stato eseguito interamente dall'artista, mentre non rientrano in tale categoria quelle realizzate con altri procedimenti (ad esempio la fotoincisione o la fotolitografia), senza il concorso dell'artista.
A tale distinzione si è giunti tuttavia per gradi, dapprima nel XIX secolo, con la fondazione della "Société des Aquafortistes" da parte dello stampatore francese A. Cadart (fig. 9), poi con il gruppo l'"Acquaforte", sorto a Torino nella seconda metà del secolo. In questi sodalizi di acquafortisti, che combattevano allora una battaglia contro l'invadenza del bulino e della litografia accademica, il termine "originale" è stato utilizzato per connotare sia le incisioni squisitamente d'invenzione, sia quelle che un artista eseguiva riproducendo i propri dipinti.

 

5. Anonimo, Sacra Famiglia con sant'Elisabetta, bulino.
6. D. Scultori, Sacra Famiglia con sant'Elisabetta, bulino, copia in controparte.

7. A. Dürer, II sogno del dotto, bulino, 1497.
8. G.A. da Brescia, II sogno del dotto, bulino, copia in controparte da Dürer, con l'apposizione di un falso monogramma.

 

Nel XX secolo il problema è stato posto in termini diversi e si è pervenuti a un concetto di originalità differente da quello del secolo precedente, motivato dalla necessità di salvaguardare le stampe eseguite con criteri tradizionali, distinguendole da quelle che venivano realizzate mediante l'apporto di strumenti fotomeccanici. Era accaduto infatti che a Parigi, allora riconosciuta capitale dell'arte mondiale, alcuni artisti di gran nome (Braque, ad esempio) avessero permesso la pubblicazione fotomeccanica (in bianco e nero o a colori) di loro dipinti o incisioni, con tirature di fogli che venivano poi numerati e da loro firmati. Questo e altri casi analoghi avevano messo in allarme i mercanti di stampe: si era avvertito in queste operazioni il pericolo di un'inflazione del prodotto e di un suo abbassamento qualitativo. Si è cercato allora di distinguere tra una "gravure" (incisione) e una più generica "estampe" (stampa), intendendo che la prima fosse un prodotto più genuino e migliore rispetto alla seconda. Poi, anche in considerazione dell'inefficacia di questi palliativi, si è giunti a dettare una sorta di definizione del concetto di originalità.

 


9 - 10


11

 

La sua prima formulazione è stata proclamata nel 1937 dal Comité National de la Gravure, all'Esposizione Internazionale di Parigi. Il testo di quella risoluzione (fig. 10), che è servito poi da base ad altre dichiarazioni, stabiliva che da quel momento dovevano essere considerate originali solo quelle incisioni e litografie, il cui intervento sulla matrice era stato interamente concepito ed eseguito a mano dallo stesso artista, con esclusione di tutti i procedimenti meccanici e fotomeccanici.
Con contenuti sostanzialmente identici si sono avute in seguito tre altre dichiarazioni ufficiali, nel 1960 a Vienna, nel 1961 a New York e infine nel 1964, quando il Comité International de la Gravure ha adottato come sua la Dichiarazione del 1937. Agli inizi degli anni Novanta, a Venezia, alcuni hanno tentato di modificare sostanzialmente la portata del concetto di originalità come era stato fissato, cercando di ammettere tra le stampe originali anche quelle eseguite con mezzi fotomeccanici, ma la proposta non ha avuto alcun seguito ed è anzi stata nettamente respinta da una nuova Dichiarazione, promulgata al Castello Sforzesco di Milano nel 1994, che non solo ribadiva le affermazioni della Dichiarazione parigina del 1937, ma aggiungeva anche che "l'immagine incisa sulla matrice deve seguire la sintassi linguistica propria dell'incisione, e cioè un appropriato e intenzionale uso delle tecniche specifiche" (fig. 11).
Prima di concludere questo argomento, va osservato che il desiderio di distinguere le opere interamente concepite a mano dagli artisti da quelle eseguite con mezzi fotomeccanici è un'esigenza avvertita soprattutto nei Paesi europei, ove vige una concezione dell'arte basata su una tradizione che assegna determinati valori all'invenzione" dell'opera e alla sua "esecuzione". In altre situazioni culturali il discorso è stato impiantato su basi differenti: così ad esempio è avvenuto nella produzione di stampe giapponesi dal XVII al XIX secolo, così avviene oggi negli Stati Uniti o nel moderno Giappone, ove le norme sull'originalità sono considerate con parametri talvolta differenti da quelli europei.

 

3. Il linguaggio della grafica.

II problema dell'originalità nasconde al suo interno problematiche più essenziali di quanto l'esteriore polemica scoppiata tra assertori e detrattori dell'incisione originale lasci supporre. Infatti un'esigenza sostanziale in ogni opera d'arte è quella di essere fedele alle proprietà connaturate al mezzo tecnico con cui si esprime. Cerchiamo di capire meglio: quando un artista realizza un dipinto fa uso di strumenti preposti a questa tecnica (il pennello, la spatola, le mani, lo sfumino e così via) e con essi, quasi necessariamente, si esprime in un linguaggio particolare, che viene detto pittorico, costituito da zone tonali, passaggi chiaroscurali, uso del colore e di differenti tonalità nell'ambito dello stesso colore, impasti materici... Allo stesso modo avviene per un disegnatore, il quale si serve di particolari strumenti (matita, carboncino, gesserà o altro) e necessariamente con essi si esprime in un certo linguaggio, che, come vedremo, viene definito "grafico".
Le stesse regole valgono per un incisore: anch'egli ha strumenti dettati e imposti dalla tecnica che decide di seguire, e che comunque sono generalmente un oggetto per tagliare (nell'incisione su legno) o uno per scalfire (nell'incisione in cavo). Essi generano di loro natura un certo tipo di linguaggio, che è quello incisorio, anch'esso facente parte comunque dei linguaggi della "grafica" (secondo l'etimologia di questo termine, dal greco gràphein, "tracciare, scrivere con segni").
Il problema nasce quando un artista realizza un'opera con gli strumenti di una certa tecnica, ma mirando a ottenere gli esiti propri di un'altra tecnica. In questi casi si verifica una pericolosa confusione, il più delle volte mal ripagata dal pubblico e dalla critica, che alla lunga declassano tali tipi di opere.
Facciamo un esempio: se un pittore decidesse di eseguire un dipinto che imitasse e alla fine sembrasse un mosaico, commetterebbe una sciocchezza, poiché al termine il suo lavoro non sarà un mosaico (nè potrà mai esserlo) e neppure sembrerà un dipinto.

 


12. S. Mulinali, La battaglia di Azio, acquatinta. Esempio di stampa, tratta da un soggetto di Pietro da Cortona, condotta con un linguaggio di tipo pittorico.


13. Parmigianino, Vergine con Bambino, olio (passato all'asta Finarte del 29 ottobre 1964).
14. D. Scultori, Vergine con Bambino, bulino, e. 1576. Esempio di stampa, tratta da un soggetto del Parmigianino, condotta con un linguaggio di tipo grafico.

 

Si registra un fenomeno analogo quando un incisore tenta, con gli strumenti tipici dell'incisione, di imitare il linguaggio di un dipinto.
Ciò ha cominciato a verificarsi verso la fine del XVI secolo, allorché a Roma incisori come Cornelis Cort e Agostino Carracci hanno cercato di utilizzare il bulino con un taglio che conferisse segni appunto più pittorici.
La propensione verso questi esiti è aumentata e si è stabilizzata nel XVII secolo, sempre più perfezionandosi nei risultati, fino a giungere nel secolo successivo a opere eseguite con una tecnica magistrale, che - eccettuata la mancanza del colore - assomigliavano molto ai dipinti che volevano riprodurre (fig. 12).
Ma il successo ottenuto in quel momento da questi fogli non è stato ripagato in seguito da altrettanta fortuna, e oggi tali stampe vengono per lo più ammirate solo in ragione della loro straordinaria tecnica.
La produzione di stampe di riproduzione con esiti pittorici era stata, nei secoli passati, motivata dal desiderio del pubblico di poter conservare nelle proprie dimore una testimonianza di dipinti di autori celebri, non altrimenti riproducibili.
Con l'avvento della fotografia tale fenomeno ha praticamente cessato di esistere, ma si è poco dopo ripresentato sotto un'altra forma, più subdola, consistente nell'offrire al pubblico la possibilità di acquistare, relativamente a poco prezzo, opere firmate da pittori di indiscussa notorietà. In altre parole, non si cercava più di offrire con la stampa una riproduzione "in piccolo" del dipinto, ma si dava l'illusione di poter venire in possesso di un'opera firmata dallo stesso pittore.
Ciò evidentemente non poteva avvenire abbassando i prezzi dei dipinti di quegli artisti, ma mettendo a disposizione del pubblico stampe in tutto simili a tali dipinti, per lo più direttamente firmate da quegli stessi artisti. E avvenuto allora che certi stampatori abbiano invitato alcuni di questi pittori di acquisita celebrità a produrre stampe di tale tipo, poco interessandosi se in esse il linguaggio grafico veniva del tutto trascurato e tradito.
Una situazione simile si è verificata soprattutto negli anni Settanta e Ottanta del Novecento, quando diversi pittori si sono mostrati disponibili a fornire soggetti per incisioni, litografie o serigrafie.
In parecchi casi poi stampatori poco onesti hanno trasferito fotomeccanicamente sulle lastre le immagini fornite loro dagli autori in fotografia o su piccoli bozzetti, ottenendo stampe nelle quali il soggetto viene espresso in linguaggio pittorico, ma con risultati che poi non raggiungono mai le brillantezze di una vera pittura.
Queste opere, che anche nel formato e nei colori vogliono imitare i dipinti, non sono in realtà nè vere incisioni, nè tantomeno dipinti.

 

15-18. Raffaellino da Reggio, Tobiolo e l'Angelo. In alto a sinistra: il disegno preparatorio; in alto a destra: il dipinto (Roma, Galleria Borghese); in basso a sinistra la sua riproduzione con un linguaggio grafico (bulino di Agostino Carracci); in basso a destra una riproduzione in chiave pittorica (chiaroscuro, inciso da un anonimo).

 

4. La "qualità" in una stampa

Come ogni oggetto d'arte, la stampa possiede diversi aspetti e può essere considerata sotto differenti angolazioni.
Alcuni di questi aspetti sono in sé tanto evidenti da non richiedere un particolare commento, come il fatto che alcuni fogli possano essere talvolta preziose testimonianze documentarie o fonti storiche di notevole importanza, coeve ai fatti che descrivono.
Ma tali aspetti non rientrano generalmente negli scopi primari di un oggetto creato per essere ammirato da un punto di vista estetico.
Tale aspetto, quello estetico, è invece la finalità primaria di un'opera d'arte e nel linguaggio corrente viene espresso elementarmente con termini come "bello/non bello", oppure "mi piace/non mi piace".
Dietro a queste espressioni familiari si cela il problema della qualità di un'opera.
Cerchiamo di chiarire meglio.
Generalmente, se una stampa appare agli occhi dei più artisticamente bella, se da una sensazione di piacevolezza, se questa impressione si mantiene anche dopo una lunga visione, se l'opera è stata realizzata tecnicamente in modo pulito e ineccepibile, se le caratteristiche interne della sua costruzione (la forma, la struttura, la prospettiva, il chiaroscuro) sono corrette e senza incoerenze, se il risultato finale è apprezzabile e apprezzato da un certo numero di persone, allora solitamente si riconosce a quell'opera la qualifica di: artisticamente bella, piacevole alla vista, meritevole e così via.
Più in là non si può andare.
Alcuni degli elementi di cui si è detto (come struttura, tecnica, ecc.) sono oggettivi, collegabili a un criterio, mentre gli altri sono elementi soggettivi, come del resto è del tutto soggettivo il canone della bellezza.

 


19. Canaletto, 11 portico con la lanterna, acquaforte, e. 1745. Esempio di un foglio di notevole importanza storico-artistica, gravemente danneggiato da strappi e parti mancanti.

 

Fin qui il discorso è piano, facile e da tutti accettabile. Diventa invece più arduo quando a queste prime caratteristiche, più esterne ed evidenti, si aggiunge anche una qualifica nuova, la "qualità".
Questa connotazione è importante, ma il termine di cui si fa uso è fortemente equivoco.
Infatti spesse volte si confondono - specie da parte dei mercanti d'arte - la qualità estetica con la qualità dell'esecuzione, o con quella semplicemente conservativa.
Che cosa sono queste due ultime? La qualità esecutiva riguarda caratteristiche che in una stampa devono essere presenti al momento del suo "concepimento".
Tali caratteristiche sono, ad esempio, la nitidezza del segno inciso, la provenienza dell'immagine da una lastra fresca o non già usurata, la cura con cui l'opera è stata inchiostrata e stampata, e ancora la scelta della carta su cui l'immagine è stata impressa.
La qualità conservativa riguarda invece le condizioni esteriori del foglio. In questo senso si tiene in considerazione se esso possegga ampi margini, se la tiratura appaia ancora fresca, se sia immune da macchie, strappi, mancanze, asportazioni, bruciature, abrasioni manuali, ecc. (fig. 19).
Se di fronte a una stampa tali caratteristiche sono tutte mantenute, allora si può affermare che da un punto di vista esecutivo e conservativo quel foglio è di ottima qualità.
Ma niente preserverà quell'opera dal poter essere eventualmente giudicata "brutta" da un punto di vista estetico.
Tale considerazione è, come noto, eminentemente soggettiva. Dunque, a livello oggettivo, con il termine "qualità estetica" altro non si può indicare che la presenza di alcune caratteristiche, oggettivamente riscontrabili (pulizia tecnica, fedeltà al segno come elemento determinante del linguaggio incisorio, struttura compositiva, prospettiva, chiaroscuro), che fanno sì che in una certa epoca e presso la maggior parte delle persone un'opera sia giudicata bella, cioè di alta qualità estetica.
Rimane al termine una domanda interessante: come si acquista la capacità di valutare la qualità di una stampa? Parliamo innanzitutto della qualità estetica, la più importante e primaria. Ci vogliono dapprima due condizioni preliminari, spesse volte poco considerate: una corretta osservanza dei principi richiesti per la visione dell'opera (come la durata, l'angolo di visuale e così via) e poi una disposizione ad apprezzare la fedeltà richiesta dal linguaggio grafico. Quando questi preliminari sono presenti, allora la capacità di fruire esteticamente di un'opera è proporzionale a una certa coerenza, non schiava di passioni visive, e soprattutto è proporzionale alla propria sensibilità intuitiva.
Per acquisire invece una buona capacità di cogliere la qualità esecutiva o conservativa, è necessaria soprattutto una certa esperienza diretta, con la possibilità di aver visto ed esaminato molti esemplari, e quindi una conoscenza non teorica di come si presentano i danni, o i restauri, su un foglio.
Se poi, nel caso specifico, non si possiede un'esperienza particolare su una certa opera, allora diviene necessario un confronto con altri esemplari della stessa, la consultazione di cataloghi ragionati, la visita alle Collezioni di Stampe.

 


20. A. Dürer, La Madonna della scimmia, bulino, e. 1498.

 

5. Rapporti con la pittura

Prima di chiudere questo capitolo è opportuno far luce anche su uno degli aspetti che più frequentemente minaccia una corretta valutazione delle stampe d'arte, soprattutto antiche.
Si tratta del rapporto in cui esse vengono poste rispetto alle opere pittoriche, dal momento che, a seconda di tale rapporto, possono essere valutate in due modi diametralmente differenti: da un lato vi è chi le considera solo (o comunque principalmente) come un mezzo riproduttivo dei dipinti, dall'altro chi ritiene l'incisione un'espressione artistica autonoma, dotata di un proprio linguaggio.
Pur nel rispetto delle opinioni di tutti, va in ogni caso rilevato che l'incisione è nata inizialmente come espressione del tutto indipendente dalla pittura, dapprima per soddisfare esigenze di natura devozionale, più tardi per illustrare i libri.
Tra i fogli del XV secolo che ci sono giunti, raramente si trovano immagini derivate da dipinti e, se si incontrano stampe realizzate da pittori (Pollaiolo, Schongauer, Dürer, ecc.), esse mostrano con palese evidenza un tipo di linguaggio attento alle proprietà della punta del bulino, e mai alle caratteristiche del pennello (fig. 20).
Dunque la fedeltà al linguaggio grafico è la caratteristica che accompagna in modo lineare la prima produzione incisoria e tale dote si è mantenuta anche nel secolo successivo, sebbene, a partire da Raffaello, si siano tentate a più riprese opere che riproducessero i capolavori dipinti di quell'epoca.
Ciò nonostante in tutte le incisioni cinquecentesche, anche in quelle di riproduzione, il linguaggio grafico è stato mantenuto intatto e integro.
Come si è detto, solo verso la fine del XVI secolo, e poi in modo sempre più diffuso nei secoli seguenti, incisori ed editori hanno cercato consapevolmente di ottenere lastre incise con segni non più grafici, ma capaci di effetti pittorici, fino all'invenzione di specifiche tecniche concepite proprio a questo scopo (come l'acquatinta o la maniera nera).
Di fronte a questo fenomeno è stato possibile rivolgere la propria attenzione alle stampe d'arte sotto due punti di vista: considerandole opere d'arte, dotate di propria autonomia e di proprio linguaggio, oppure considerandole solo per la loro capacità riproduttiva, in relazione alle opere pittoriche.
È abbastanza evidente che, nel secondo caso, la stampa d'arte non viene considerata come tale, ma solo come un mezzo, una sorta di documento che permette talvolta di conoscere dipinti andati perduti o modificatisi nel tempo.
La storia della pittura in effetti ha certamente tratto a più riprese vantaggi dalle stampe di riproduzione, che tra l'altro in diverse epoche sono state il tradizionale e più comodo veicolo per trasmettere iconografie o stili.
Parallelamente in passato i collezionisti o gli amanti delle opere d'arte hanno potuto, con le stampe di riproduzione, non solo ammirare facsimili di capolavori loro altrimenti preclusi dalle distanze geografiche, ma anche possederne nelle loro case una riproduzione in formato ridotto, spesse volte incorniciata ed esposta alle pareti.
È evidente tuttavia che questo modo di considerare le stampe è applicabile solo a quelle di riproduzione e non può in alcun caso valere come criterio di giudizio generale.
All'incisione di invenzione, infatti, va rivendicata una piena autonomia come opera d'arte.

 

Testi ed immagini tratte da: Paolo Bellini - MANUALE DEL CONOSCITORE DI STAMPE
A.Vallardi editore - 1998